Antigone, dacci oggi il nostro pane quotidiano.

“Il teatro ci serve a capire il nostro vicino di appartamento. È una palestra di emozioni, un allenamento alla vita, per questo dovremmo farlo diventare il nostro pane quotidiano”.
Così ha concluso il suo intervento Roberta Carpani, docente di Drammaturgia e Storia dello spettacolo all’Università Cattolica di Milano, che ha introdotto la replica di Antigone nella città con l’intervento “Il teatro e il pane quotidiano”.
Una visione del teatro lontana dalla concezione borghese e dalla percezione diffusa è quella proposta da Roberta Carpani, che partendo dalla constatazione di un radicato senso comune che inquadra il teatro come un’esperienza nobile e culturale da un lato, ma pur sempre marginale e di nicchia perché lontana dalla vita vera, ha sottolineato l’urgenza di liberarsi da questo pregiudizio.
Il teatro è fatto di voce, di movimento, di sguardi, di emozioni, dunque, non dovrebbe puzzare di stantio e far pensare alla polvere. È un sistema economico, ma soprattutto è un fatto politico, nel senso etimologico del termine: prendersi cura della città, della polis.”
Ma oggi l’Atene del V secolo non c’è più, come afferma uno dei protagonisti dell’Antigone di Gigi Gherzi, e come ha sottolineato Carpani: “Non c’è più polis, la città è metropoli, aggregazione di comunità anche frammentate, e l’obiettivo è fare in modo che il teatro raggiunga e parli a queste comunità e abbia un senso all’interno del calendario collettivo, oggi regolato da un’unica religione: il lavoro. Oggi non c’è il riposo dedicato al sacro, ma ci dedichiamo al riposo dalla sacralità del lavoro. Per secoli il teatro è stato legato alla festa, al sacro. Ad un certo punto il teatro diventa mercato, e cambia l’orizzonte e il sistema. Questo cambiamento storico importantissimo, sancito in modo definitivo dalla rivoluzione francese ha fatto sì che i destini di teatro e festa si separino. E allora in che modo oggi, con la disgregazione della polis, l’indebolimento della festività, l’affermazione della religione del lavoro, il teatro può nuovamente entrare a far parte del nostro quotidiano? Partendo da una citazione di Gothe “L’arte non è un modo per fuggire dal mondo, è un mezzo per entrare nel mondo.” Propongo di considerare il teatro come nutrimento del nostro immaginario, come esperienza che, coinvolgendo i diversi piani della nostra vita, diventa palestra di emozione, della creatività, allenamento razionale di quello che si osserva.”
Bisognerebbe, inoltre, riscoprire la dimensione formativa del teatro. Per secoli l’arte drammatica è stata praticata come disciplina all’interno di scuole e collegi – ha ricordato Roberta Carpani- In queste scuole si formavano i rampolli delle grandi famiglie che avrebbero poi intrapreso grandi carriere politiche, militari, diplomatiche, perché si aveva coscienza del valore pedagogico del teatro, che avrebbe formato i giovani alle relazioni, alle dinamiche di gruppo, facendo acquisire loro competenze trasversali.”

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Antigone oggi difenderebbe lo ius soli e le unioni civili.

Non poteva essere di più stretta attualità l’intervento di Roberta Gandolfi, docente di storia del teatro contemporaneo all’Università di Parma, ad introduzione della replica di Antigone nella città, in scena al Teatro Out Off fino al 2 novembre.
Mentre l’opinione pubblica si infiamma e si divide sui temi dell’immigrazione e del riconoscimento dei diritti civili per le coppie omosessuali, Roberta Gandolfi rifacendosi al saggio della filosofa americana Judith Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, ci presenta la protagonista della tragedia di Sofocle come simbolo delle forme di parentela anomale e di tutti e tutte coloro che non ottengono dallo Stato e dalle leggi riconoscimento politico e cittadinanza.
Roberta Gandolfi vede nella lettura di Butler e nel percorso drammaturgico di Gianluigi Gherzi un’ affinità di orizzonti etico-politici, seppure le due proposte muovano da argomentazioni molto diverse.
Butler ci chiede: Antigone contrasta Creonte in nome dei legami famigliari, delle leggi non scritte che chiedono di seppellire e compiangere i propri morti: ma abbiamo davvero riflettuto di quale parentela, di quale umanità Antigone si fa portavoce?
Non possiamo considerarla come portavoce delle forme tradizionali di parentela, perché lei è frutto di incesto, è figlia di Edipo e Giocasta, appartiene a una stirpe anomala e proprio per questo segnata da un destino tragico, lontano dall’inclusione nel consesso umano. La reclusione dentro alla grotta cui la condanna Creonte, la condizione di morte in vita cui lei si ritrova condannata (e che rifiuta suicidandosi) politicamente è una condanna di esclusione dalla polis, dalla cittadinanza, dal diritto di cittadinanza.
Chi è, allora, Antigone per noi oggi? La sua storia si ripete nelle famiglie lesbiche e gay, ma per estensione riguarda tutti coloro che vengono privati dei diritti civili e politici. Antigone, ci dice Butler, è condannata a una morte sociale, tutta la sua stirpe vive in una zona limite fra la vita e la morte, pervasa profondamente da uno stato di malinconia: è quanto accade oggi a singole persone e a comunità intere, come ad esempio i migranti (pensiamo alla tragedia del loro status giuridico, che colpisce anche i migranti di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, quando compiono il 18esimo anno ). Uomini e donne costretti come Antigone a una morte vivente, rigettati ai margini della cittadinanza : basti pensare alle morti nel mediterraneo, alle quali neghiamo il compianto.

“Il teatro di Gherzi e la filosofia di Butler, attraverso le loro Antigoni ci dicono che vale la pena di lavorare a orizzonti etico/politici diversi da quelli attuali, portatori di utopie necessarie –ha concluso Roberta Gandolfi- Queste due riflessioni, l’una performativa e l’altra filosofica, pur nella differenza dei loro temi, sono entrambe preziose proposte operative verso l’orizzonte di un nuovo umanesimo.”

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Tra l’Atene del v secolo e la Russia contemporanea. Dove è finita Antigone?

Ieri sera Antigone nella città ha fatto un lungo percorso. Dall’Atene di Pericle è passata alla Russia di Putin attraversando la primavera araba, facendo tappa anche nella nostra Milano. Grazie alle parole di Gerardo Guccini, docente di drammaturgia al Dams di Bologna, con l’intervento su “La Polis e il Teatro Necessario”.
Guccini ha sottolineato come la tragedia attica del V secolo fosse un rito strettamente collegato con la propria comunità di appartenenza: quella della polis, di cui si propone come punto di riferimento culturale, incidendone nella formazione di un’identità cittadina.
A questo scopo la tragedia opera una trasformazione del mito, una trasfigurazione necessaria a plasmare l’identità politica ateniese. Significativo è il fatto che i miti non si presentassero nel mondo greco come unità. Un personaggio poteva essere tramandato con connotazioni diverse, ed essere protagonista di vicende differenti. L’autore tragico compiva già prima della composizione una scelta delle fonti, dei miti su cui lavorare. E nella stesura della tragedia un peso non indifferente ricopriva il motivo agonistico, determinante per le scelte e i progetti.
Due esempi di come il teatro attico assolvesse al compito di purificazione del mito ed interazione con i punti di riferimento comuni alla Grecia del V secolo si possono leggere nell’Oreste di Eschilo e nell’Antigone di Sofocle.
Oreste uccide la madre, vendica il padre ma provoca la rabbia delle erinni. Condotto al tribunale dell’Aereopago, viene assolto dalla Dea Atena. Il perdono di Atena avviene dunque all’interno di istituzioni democratiche da lei stessa fondate. Avviene così la trasformazione di un luogo mitico condiviso e rigenerato, al cospetto degli dei e del loro pubblico.
Antigone dà sepoltura a Polinice sfidando il divieto del tiranno di Tebe, Creonte, che la condanna a essere rinchiusa viva in una caverna, dove si suicida. Sul suo cadavere si uccide il suo fidanzato Emone, figlio di Creonte, che invano ne aveva tentato la difesa presso il padre, Edipo. Nell’ultima tragedia di Sofocle Edipo trova perdono a Colono, luogo sacro degli ateniesi.
Come dirà Epaminonda nella biografia tramandata da Cornelio Nepote (Vite di uomini illustri) Oreste ed Edipo nati innocenti in patria, furono cacciati dalle loro città ed accolti dagli ateniesi all’interno di sistemi arcaici di nuovo conio Aereopago o antichissimi come Colono.
Atene accoglie gli uomini che si sono macchiati di colpe nelle proprie patrie, ma nell’accogliere li assolve, e li consegna rigenerati alla memoria collettiva, divenendo luogo di purificazione.

Dopo lo spettacolo, Guccini ha dialogato con l’autore e interprete Gigi Gherzi e con il pubblico, forse stupito e sicuramente emozionato dalla pièce. Proprio dalla platea è stata lanciato un interrogativo : “C’è ancora Antigone in città?” Non è una domanda così scontata come sembrerebbe. Guccini risponde che Antigone è difficile da individuare all’interno di personalità pavide, tuttavia nel mondo contemporaneo non mancano esempi di coraggio come i due registi fondatori della compagnia TEATR.DOC, Elena Gremina e Mikhail Ugarov che affrontano in teatro fatti che non hanno avuto un’adeguata copertura dai sistemi di informazione.
Gigi Gherzi ha sottolineato come la propria esperienza al Teatro degli incontri lo abbia portato in contatto con comunità di migranti e di rifugiati politici per cui il senso di Antigone è a volte difficile da afferrare, perché per loro la legge dello Stato molto spesso coincide con quella del cuore.

Il dibattito si è fatto denso ed ha coinvolto anche esperti come Maddalena Giovannelli, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, che ha sottolineato come spesso il personaggio di Antigone non susciti ammirazione tra i giovani studenti, che le preferiscono Creonte, e il prof. Bernardini che ha evidenziato la distanza tra la presenza della donna nella tragedia greca e la sua sostanziale marginalità nella Grecia del V secolo.
Noi vogliamo pensare che Antigone stia continuando il suo cammino, nella fredda Russia imperialista, nelle tante primavere arabe, e anche nella nostra Milano, che ha tanto bisogno di ricordarsi che “la legge dello stato è una, ma quella del cuore è un’altra”.

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Gigi Gherzi: Con Antigone mi chiedo che senso abbia fare teatro oggi.

Conversazione con  Gigi Gherzi, autore di   “Antigone nella città”   prima del debutto di giovedì 16 al Teatro Out Off. Lo spettacolo rimarrà in scena fino al 2 novembre
Il tuo è un rapporto ormai collaudato con la tragedia greca, prima Medea, realizzata con Il Teatro degli incontri e in cantiere c’è Prometeo. Cosa ti spinge verso il teatro classico ?
Credo che chi abbia lavorato molto nel teatro rivolto alle comunità (io ho lavorato con diverse comunità di migranti, di rifugiati e stranieri), trovi nella tragedia greca uno straordinario terreno di sperimentazione.
È una forma in cui l’ego in senso classico conta poco,  anche la figura dell’eroe è costretta a scontrarsi con un’opinione collettiva, al pubblico viene chiesto di interrogarsi sui grandi temi etici e politici.
E poi c’è il fascino di una forma teatrale aperta ed intrisa di rapporto con la città, di temi che inaspettatamente parlano alla coscienza di oggi come e a volte con più forza delle opere contemporanee.
E l’idea di lavorare drammaturgicamente su Antigone da cosa nasce?
Dall’esigenza di riflettere su Antigone come eroina di un rapporto rispettoso, misurato, sacro con il dolore. Cosa che la nostra civiltà dello spettacolo sembra avere completamente smarrito. Il richiamo ad Antigone diventa il richiamo ad un’idea alta di teatro, di spettacolo come incontro. È tra le tragedie greche la tragedia della polis per eccellenza, la regola che chiede il rispetto civile. L’infrazione di quella regola si ripete nel nostro presente storico. Io trovo straordinario che l’intera città sia chiamata a giudicare su un atto, che il coro dei anziani sia incerto tra il gesto di ribellione e la visione che la violazione di quel limite si può trasformare in disastro.

Tu e Loris (Lorenzo Loris, regista ed attore) portate in scena due atteggiamenti diversi ma complementari nella ricerca del senso del teatro nel mondo contemporaneo.
Luca e Leo sono due personaggi solo apparentemente diversi. Il personaggio di Luca ( al quale presto il volto) afferma la necessità e la vitalità di quella passione artistica e civile che si esprime attraverso il teatro. Leo (Lorenzo Loris), apparentemente cinico e disilluso, sta in realtà cercando forme non retoriche per affermare la stessa funzione. In entrambi i personaggi vive l’anima lucida ed appassionata che incoraggia ogni importante scommessa artistica. Un pensiero profondo ha bisogno d entrambi gli atteggiamenti.
Nello spettacolo sono presenti video (realizzati da Alessandro Canali) della nostra storia recente e una citazione di Pasolini. È il mondo contemporaneo che si mescola ad immagini del mondo classico?
I brevi filmati fanno parte integrante della drammaturgia e nascono dall’esigenza di lasciare che sulla scena il nostro presente storico si presenti attraverso immagini poetiche e stravolte. Pasolini racconta un rapporto disperatamente vero con i dilemmi posti dalla tragedia.

Antigone nella città…

Cosa lega il mondo contemporaneo, in cui la spettacolarizzazione del dolore è ormai diventata la norma, in cui il circo mediatico si nutre di tredicenni barbaramente uccise, il continente brucia tra le fiamme di una violenta crisi e la tragedia del V secolo?

Se lo chiedono Luca e Leo, due uomini del nostro tempo, che si confrontano sui destini del teatro e della città, prendendo come riferimento l’Antigone di Sofocle.

Da questo confronto nasce lo spettacolo Antigone nella città di Gianluigi Gherzi, per la regia di Lorenzo Loris, in scena al Teatro Out Off dal 16 ottobre al 2 novembre.

Il circo delle arene televisive e quello dell’antica Roma, l’Atene del V secolo che partorì gli agoni classici e quella del default del 2011. È un doppio binario quello su cui si muove Antigone, interrogandosi sul senso del teatro e sul destino della città.

E attraversando il presente ci immergiamo nel ciclone di un teatro della crudeltà, nato nei circhi romani, tra gladiatori, belve feroci e pubblico assetato di violenza, molto simile a quello di telespettatori che hanno respirato le polveri del crollo delle Torri Gemelle, si sono persino assuefatti ai plastici televisivi dei  delitti dell’orrore, seminando una distanza con la poesia, con certe visioni pasoliniane che pure fanno parte della nostra storia.

“Antigone nella città” mette in scena i dubbi, le difficoltà, gli scoraggiamenti di chi oggi si chiede se sia possibile un’azione capace di violare la monotonia dell’orrore. Nello stesso tempo, non può che fare proprio il richiamo finale del messaggero che chiude l’Antigone.

Uno strano, incredibile riferimento, al tema della felicità. Alla necessità di un posto centrale per questa parola, così abusata ma così, paradossalmente, provocatoria, all’interno della nostra vita.

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L’adolescenza è un tempo assoluto. Intervista a Milo De Angelis

“La corsa dei mantelli” è un testo importante nella sua produzione poetica, che già 30 anni fa venne portato a teatro. Cosa rimane di quella messa in scena nel nuovo adattamento teatrale in scena al Teatro Out off?
“La corsa dei mantelli” è una raccolta di frammenti narrativi e lirici che convergono nella figura di Daina – un’adolescente guerriera, bella e imprendibile, sempre in corsa, amante dei giochi, delle gare e dei duelli – e su quella di Luca, follemente innamorato di lei e disposto a inseguirla in capo al mondo. Nella nuova rappresentazione dell’Out Off c’è un terzo personaggio, Sonečka: un tempo ha amato anche lei i giochi e le sfide e ora vorrebbe renderli eterni, trasportandoli nel suo mondo dopo la morte dei protagonisti. Rispetto alla messa in scena del 1983, c’è dunque un filo conduttore più visibile, un accenno di sviluppo temporale, ferma restando l’atmosfera orfica e leggendaria tipica di quel mio antico racconto, scritto in un lungo e freddissimo inverno trascorso a Varsavia alla fine degli anni settanta.
L’adolescenza candida e crudele che popola il romanzo del 1979 ha conservato la sua essenza anche in questi anni?
L’adolescenza, con le sue domande perentorie e violente, rimane la protagonista di quest’opera.
Nulla è cambiato da allora. L’adolescenza è un tempo assoluto: pochi anni che si estendono all’infinito e sono improsciugabili. L’infanzia è trascorsa, i genitori sono alle spalle e la maturità è ancora lontana, laggiù, oltre il cortile. Rimane questo tempo sospeso e sterminato, tempo di gare, di partite di calcio, di corse puntate al filo di lana, di porte disegnate con il gesso sui muri. I valori dell’adolescenza sono valori eroici: il rischio, l’eccesso, il pericolo, l’avventura al limite delle proprie forze, l’avventura che non garantisce il ritorno. Tutti i valori dell’età adulta appaiono nella loro sconcertante pochezza rispetto a quelli della banda, inflessibili e sanguinari, ma giusti. L’ adolescenza è uno scisma. Apre un varco improvviso e profondo nel passo quotidiano e lo mette in pericolo. L’adolescenza, come la poesia, è illegale. Non è il luogo degli accordi. Nell’accordo c’è una forma di menzogna, che il ragazzo magico ha deciso di sventare. L’adolescenza punta alle affinità elettive, ai fratelli di anima, al legame inesorabile tra due creature che non si conoscevano prima e che proprio lì, in quel cortile, in quella partita, trovano la loro alleanza, fondano un patto giurato.

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Daniele Pitari:” Porto in scena un’eterna adolescenza.”

Ospite sul nostro diario di bordo, Daniele Pitari, che presta il volto a Luca ne La corsa dei mantelli, ci racconta la sua esperienza in scena come eterno ragazzo.

Ne “La corsa dei mantelli”, ti confronti con un testo scritto nel 1979, dalla forma ibrida, quasi una poesia in forma di prosa in cui si delinea un adolescente inquieto e innamorato: il tuo personaggio. Come è stato il confronto con il lavoro De Angelis?

Nella prima fase di lavoro sul testo, De Angelis è stato presente, ha seguito le prove, osservato e in un certo senso partecipato alla costruzione dello spettacolo, registrando con fiducia le novità drammaturgiche, come il personaggio di Sonecka, assente nel romanzo. Personalmente ho apprezzato molto l’atteggiamento di fiducia di De Angelis verso il nostro lavoro, noi dal nostro canto abbiamo mantenendo intatta la sua poesia.
In scena presti il volto a Luca ma nell’adattamento di Sofia Pelczer, il tuo personaggio segue anche la vicenda di un altro protagonista, presente nel libro: Stefano, che va incontro alla morte, metafora dell’età adulta. Come hai lavorato per unificare le due figure ?

Il mio personaggio nasce dall’unificazione di due coscienze diverse più che da due personaggi diversi, quindi uno dei lavori che ho fatto è stato quello di amplificare l’ossessione di Luca per Daina, portandolo inevitabilmente alla morte metaforica e quindi alla crescita, cercando di creare un personaggio autentico che non fosse nè Luca e nè Stefano.

In “Portami in un posto carino” e in “La mia massa muscolare magra” porti in scena l’adolescenza/giovinezza degli anni 2000, eppure proprio La corsa dei mantelli sembra evidenziare l’universalità di questa fase della vita, che a dispetto del contesto spazio temporale è sempre una dimensione sospesa, in cui tutto è in divenire.

E’ vero negli altri spettacoli che portato in scena quest’ anno e l’anno scorso con la regia di Manuel Renga scritti da Tobia Rossi, al centro della scena è sempre l’adolescenza, periodo dove l’anima sembra più in evidenza , libera, con una forza all’interno che non ha altri paragoni. È il periodo dove si forma il nostro animo, dove tutto viene vissuto al massimo come se non ci fossero scappatoie se non quella di vivere. Emergono amori e paure, anche in maniera selvaggia e violenta ma con una purezza che perdiamo più avanti.

Light Lacorsadeimantelli di Milo De Angelis nella foto  Daniele Pitari, Valentina Mandruzzato

Daina tra temerarietà e sogno. Intervista a Valentina Mandruzzato.

Classe 1984, diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi, Valentina Mandruzzato è l’adolescente Daina, la protagonista de La corsa dei mantelli di Milo De Angelis, in scena al Teatro Out Off fino al 12 ottobre.
Daina è selvatica, temeraria, indomita ma il suo coraggio odora di inesperienza e nel suo essere così audace provoca in maniera inaspettata tenerezza. Ti ritrovi in questa definizione ?
Credo che la tua definizione di Daina sia molto corretta, l’ostinazione nel mostrarsi forti e mai impauriti dalla vita genera una forma particolare di tenerezza. Paradossalmente il personaggio di Luca apparentemente più volte fragile è in realtà il più forte, e segue un percorso lineare nella vicenda.
Daina è una figura simbolica ed è forse più complicato creare un’arcata durante lo spettacolo che racchiuda tutte le sfumature del personaggio, ma se riesce ad apparire selvatico e dolce allo stesso tempo posso ritenermi soddisfatta.
Il testo di De Angelis si carica di suggestioni dell’est, di bagliori di una Milano periferica, quasi preindustriale e fa incursioni nel fiabesco. Come ti sei orientata per rendere la dimensione quasi ancestrale che Sofia Pelczer ha prediletto nell’adattamento?
Il mio gusto personale ed il mio attaccamento a Milano ed alla sua periferia , dove sono nata e cresciuta, avrebbero voluto che questo aspetto del romanzo fosse reso più esplicito. La messa in scena di Sofia Pelczer ha invece prediletto gli aspetti fiabeschi della vicenda. Quindi anche nella recitazione ho spogliato il mio personaggio di precisi tratti spazio-temporali per rendere la dimensione onirica. Contemporaneamente alla letture de La corsa dei mantelli, ho letto La casa del sonno di J. Coe, proprio per capire meglio come penetrare in un testo immerso in un sogno.
La vera protagonista della pièce è proprio l’adolescenza candida e crudele che potrebbe essere del 1958 come del 2014. Un testo destinato a non invecchiare?
L’adolescenza è sempre e per tutti un periodo in cui si spera in quello che accadrà negli anni che verranno dopo. Quando si è adolescenti o comunque giovani sembra di essere sempre in corsa verso un futuro che sta per arrivare e sarà bellissimo. La corsa dei mantelli racconta questo periodo della vita cogliendone l’essenza e credo che proprio per questo sia destinato a non invecchiare.

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Viviana Nicodemo: con Sonečka l’adolescenza è una condizione infinita.

Ospite sul nostro diario di bordo Viviana Nicodemo, la figura magica e sapienziale de La corsa dei mantelli, in scena al Teatro Out off fino al 12 ottobre.
Sonečka è un personaggio nuovo, non presente nel testo di Milo De Angelis La corsa dei mantelli del 1979. Un personaggio forgiato appositamente per la messa in scena del Teatro Out Off che però ingloba le caratteristiche di tutti gli altri personaggi presenti nel romanzo. Come hai lavorato per dargli forma?
E’ vero, Sonečka non esisteva nel racconto di Milo De Angelis. E’ un’invenzione – una bella invenzione! – della regista Sofia Pelczer, che ha raccolto in lei voci e figure disseminate nelle pagine. Abbiamo lavorato insieme per darle una varietà di toni e farne un personaggio polifonico. Scherzoso, nostalgico, sapiente, infantile, malinconico e sempre deciso a realizzare il suo scopo ultimo: dare un altro luogo all’adolescenza, non permettere che finisca nel rimpianto e nell’incompiuto. Sonečka ha una caratteristica essenziale: è colei che fonda il tempo. Luca e Daina vivevano in una pura presenza di sfide e di gare, non conoscevano il futuro. Sonečka, con la sua forza profetica, li proietta in una durata di stagioni e di ritorni.
Sonečka ha conosciuto le meraviglie dell’adolescenza, ed a un certo punto dice che “forse anche lei ha 14 anni e mezzo”. L’adolescenza rimane latente stato d’animo anche da adulti?
Credo proprio di sì. L’adolescenza è una condizione infinita. E’ l’età in cui ogni creatura scopre se stesso, esplora la sua mente e il suo cuore. Attraverso i giochi e le gare, giunge a conoscere i propri limiti e il proprio valore, dà inizio al lungo cammino interiore che poi continuerà negli anni.
La tua presenza è una novità nella messa in scena de La corsa dei mantelli. In cosa altro pensi si caratterizzi questa versione rispetto ad altre riduzioni?
Questa nuova Corsa dei mantelli da una parte accentua la dimensione orfica presente nel libro, riducendo al minimo gli elementi di attualità e insistendo sul timbro onirico, sugli archetipi, sul tempo sospeso e assoluto. Dall’altra cerca di mantenere fermo un filo conduttore che possa connettere le varie scene e creare un ritmo nei gesti, nelle parole e nei silenzi dei vari personaggi, nel loro sforzo di far durare magicamente l’adolescenza.

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La mia corsa onirica e lirica lungo i confini tra sogno e realtà.

Ospite a Quattro chiacchiere con Sofia Pelczer, regista de La corsa dei mantelli, di cui ha curato anche l’adattamento, in scena al Teatro Out Off, fino al 12 ottobre.

Perché mettere in scena La corsa dei mantelli, non è un romanzo né un racconto, anzi nella struttura quasi evanescente della narrazione è un testo difficile da portare a teatro.
Quella con il testo di Milo De Angelis è una lunga frequentazione. Da diversi anni che organizziamo letture pubbliche e recital da La corsa dei mantelli. Sono stata affascinata dal linguaggio poetico che si sviluppa su una base realistica ed ho pensato che sarebbe stata una bella sfida portarlo a teatro, mettendo in scena l’opposizione tra il realismo della vicenda e l’universo onirico su cui si staglia. La mia drammaturgia ha lavorato indagando questa zona di confine tra sogno e realtà, tra apparenza e verità, illuminando il passaggio tra adolescenza ed età adulta.
Il tuo adattamento ha operato una sintesi completa ed originale.
Ne La corsa dei mantelli sono presenti tre personaggi con cui si confrontano Luca e Daina: l’uomo morto con il cappotto verde, la signora del viottolo e il chiromante. Funzionali all’atmosfera fiabesca hanno nomi e caratteristiche riconducibili a nuclei tematici: l’uomo morto è l’immagine della morte, la signora del viottolo rimanda al cibo, il chiromante alla magia. Ma sarebbero stati troppo fragili drammaturgicamente. Allora la scelta di forgiare un unico personaggio che contenesse le caratteristiche dei tre. Una figura sapienziale che guidasse Daina e Luca, ed è nata Sonecka. Il nome, scelto da Milo De Angelis, Sonecka è un omaggio alla poetessa Marina Cvetaeva, autrice de Il racconto di Sonecka. Perché La corsa dei mantelli contiene immagini di Varsavia, essendo stato scritto anche lì.
L’adolescenza come tempo magico, in cui tutto sembra incredibilmente grande, vero ed assoluto. Hai dato a questa età una dimensione archetipica. Per questo motivo non hai fatto riferimenti a città e tempi definiti?
Non volevo legare la vicenda ad un preciso contesto spazio temporale. D’altronde il testo del 1979 contiene sì molti riferimenti alla città e al 1958, ma è anche vero che li contraddice, snodandosi lungo bagliori e immagini evanescenti che da Milano portano a Varsavia e a luoghi della fantasia. A me interessava mettere in scena l’universalità della vicenda, l’archetipicità dei personaggi e dell’età adolescenziale, il rapporto con la morte, metafora del passaggio all’età adulta.
Musica e gioco luci hanno un’importanza notevole nella tua pièce, come ti sei orientata in questa scelta?
Ho individuato due mondi: uno onirico e l’altro lirico. Per tratteggiare l’atmosfera fiabesca che avvolge Sonecka, alle cui apparizioni sono legati brani di Brian Eno, per il personaggio di Daina ho pensato alla musica di Meredith Monk, ma per dare risalto alla sua concretezza mi sono servita di due brani di Gjhorn.
Come colonna sonora dell’universo lirico, fatto di gioco, emozioni, della spensieratezza dell’adolescenza ho scelto la musica classica, il pastorale.
Con le luci, invece, ho ricercato la poesia. Le ombre, che molta importanza hanno nel romanzo, sono presenti in scena sottolineando la dimensione di sospensione , facendo da sottofondo tematico alla dimensione reale.

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